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La storia

La carestia

Nelle storie tra le tante che si svolsero nel Cilento, precisamente a Valle Cilento, nel corso dei quattro secoli che vanno dal quattrocento all’ottocento, si inseriscono le vicende della carestia del 1764, annotata nel libro di memorie di uno storico involontario, il dottore in legge Fabio Donnabella.
L’autore cresciuto nell’ambiente contadino del piccolo villaggio di provincia in una famiglia borghese di antiche tradizioni e vissuto poi per lunghi anni nella capitale per motivi di studio, descrive attraverso un breve inquadramento sul regno partenopeo, gli avvicendamenti che si svolsero nel Cilento è in particolare a Valle, piccolo paese posto alle falde del Monte Stella.
In questo racconto del Donnabella, in cui ritroviamo un autentico spaccato della storia economica e sociale del Cilento e di questa area della provincia del Principato Citeriore, ne evidenziamo alcune considerazioni più rilevanti quali: il rammarico per l’aumento dei prezzi, il senso di pietà per coloro che sono duramente colpiti dalla carestia, la rassegnazione per senso di fatalismo di fronte alla sciagura mandata da Dio per i “nostri peccati” e l’aspra critica che rivolge ai regnanti.
Nel testo traspare inoltre la disapprovazione e le accuse nei confronti dei cittadini della convicina terra di Sessa che, diversamente dai compaesani di Valle, quasi tutti contadini, erano invece artigiani e commercianti che “giravano tutto il Cilento per vendere fiscoli (diagrammi di fibre vegetali usati nei frantoi per deporvi le olive frante/sminuzzate) e pignatte” e con spirito imprenditoriale, nel periodo della carestia, si trasformarono in panettieri (l’autore ne annovera circa 68 produttori).
L’autore racconta come in un diario la cronistoria di questa tragedia che dal mese di novembre del 1763 al 30 giugno del 1764 colpì il mezzogiorno.
Il suo puntuale racconto, un tuffo nel passato settecentesco, riporta il valore dei cereali e dei vari prodotti agricoli venduti alle fiere di questa area del Cilento, il valore delle monete dal carlino al ducato e al tornese, agli usi, costumi e tradizioni, e ci restituisce con un velo di tristezza uno spaccato di quel mondo rurale che nell’istituzione della neofeudalità borbonica e nell’avanzare delle emergente classe borghese, aveva intravisto un possibile momento di rilancio dell’economia locale e del regno nel periodo pre-unitario.
Ulteriori riferimenti ci riportano ad orizzonti più ampi, estesi a tutta la provincia di Salerno e alla stessa capitale Napoli, in cui, alla fine della carestia, una grave epidemia di peste colpì la città con circa 500 morti al giorno.
Molteplici furono le trasformazioni di edifici in ospedali: il quartiere della cavalleria nel ponte della Maddalena fu convertito in ospedale, parte del quartiere di Chiaia e tre grandiosi palazzi in Posillipo furono convertiti in strutture per il ricovero e all’ospedale degli incurabili si aggiunsero millecinquecento letti.

Per maggiori approfondimenti si rimanda alla lettura del testo integrale del dott. Fabio Donnabella, riportato nel testo del prof. Francesco Volpe.

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Considerazioni

Appare evidente che la ristrutturazione del palazzo, eseguita nel pieno del periodo della carestia del 1764 (data riportata sull’asse a vite del frantoio ligneo e ultimato nel 1771 come testimonia l’iscrizione sulla ringhiera in ferro battuto del balcone al primo piano), fu influenzata da ristrettezze economiche e dal reperimento delle materie prime utilizzate, come ad esempio il confezionamento delle malte delle murature, in cui si è riscontrata una eccessiva carenza di inerti, calce e pozzolana.
Analoga carenza di leganti si rileva dall’esame degli strati degli intonaci confezionati quasi esclusivamente con terriccio argilloso reperito in loco.
Si presume che la scarsa disponibilità economica legata al periodo post- carestia abbia influenzato l’andamento e la definizione del programma delle lavorazioni; in particolare nella definizione delle superfici dei vari prospetti e dei relativi registri architettonici delle facciate.
Infatti non si comprendono le motivazioni progettuali che comportarono definizioni architettoniche disomogenee privilegiando come nel prospetto principale, nella corte, nello scalone e nella cappella, articolate soluzioni compositive, di gusto neoclassicista in uso sul finire del XVIII sec., diversamente dal trattamento della restante parte dei prospetti realizzato con finiture rustiche e tipologiche materiche di intonaci grossolanamente ringrossati a sguazzo, senza cornici e/o stucchi e con l’utilizzo dei coppi alla romanella in luogo di cornicioni e sporgenze delle coperture.
Per le porzioni “nobili” del fabbricato furono adottate soluzioni architettoniche di moda nel periodo storico di riferimento, arricchite con superfici lamate, bugnati, lesene, stucchi, cornici e sagomature delle sporgenze dei cornicioni; nelle stesse aree furono completate inoltre le pavimentazioni costituite da ampie campiture di lastroni di basoli squadrati in calcarenite locale e da un emiciclo in selciato di pietrame di invito all’ingresso del prospetto principale.
Nello stesso periodo furono realizzati gli ammezzati tra il piano terra e il primo piano, sia dei vani prospicienti il prospetto principale (adibiti a residenze di servizio) che dei vani verso parte posteriore, verso il giardino, adibiti a depositi di derrate alimentari e di servizio per l’area di produzione e conservazione dell’olio e dei formaggi.
Tali ampliamenti dell’area del palazzo ne definirono e completarono la funzionalità della nuova e completa configurazione del complesso come “azienda agricola”, gestita dalla famiglia Coppola.
Fatta eccezione la torre nella sua interezza, resta solo qualche elemento a testimoniare le preesistenze quattrocentesche: elementi lapidei in calcarenite di un portale di un blocco di un piedritto, di un blocco a forma toroidale asportato dalla torre per consentire l’accesso dall’esterno e l’utilizzo del primo livello della torre per deposito di derrate o legnaia.
Sono ipotizzabili successivi interventi eseguiti nei primi decenni dell’ottocento limitati al completamento e alla finitura delle pavimentazioni in riggiole vietresi smaltate e a successivi interventi manutentivi limitati a sostituzioni di pavimenti e ad apposizione di carta da parati e ulteriori protezioni ai piani inferiori di grate in ghisa.